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“Oro blu” il racconto di Sara Bortoluz si mette in luce nel nostro concorso di narrativa

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Ecco il racconto di Sara Bortoluz dal titolo “Oro blu”

Adina si svegliò nel cuore della notte. Il buio regnava sovrano attorno a lei, avvolgendola nella sua massa densa ed oscura. Un dolore incessante e fastidioso le percorreva la schiena, snodandosi a tratti lungo le braccia scarne. Era esausta, eppure non riusciva a dormire: i suoi occhi rimanevano ostinatamente aperti e fissi nell’oscura vacuità, a scrutare l’indistinto ventre della notte. Non era il caldo a turbare il suo sonno. Sì, l’aria era immobile e forte nel suo abbraccio, ma vi era abituata, era nata in Etiopia, quella era la sua terra, dolce ed amara allo stesso tempo.
Non era neppure il male che le attanagliava le membra a tormentarla: anche se non le dava tregua, era soltanto uno sfondo lontano, che esisteva, ma non era altro che un paesaggio remoto che svaniva tra pennellate di bianche nubi all’orizzonte. In primo piano, svettava invece un vago senso di muta inquietudine. Era la prigionia della sua anima a dolerle, le ali ferite e spezzate della sua immaginazione a sanguinarle.
«Ogni giorno, non vi era possibilità di alcuna eccezione – pensava – e per quanto tempo ancora? Molto probabilmente per sempre».
Tra poche ore sarebbe spuntato il sole e lei avrebbe dovuto affrontare l’arida pianura. L’astro diurno sarebbe sorto sul volto spento di una giornata che si aggiungeva ripetitiva ad una serie di giornate scandite dal ritmo amaro dei passi infiniti sulla polvere.
Sentiva il respiro tranquillo del padre e del fratello che dormivano profondamente. Si alzò e senza far rumore raggiunse l’unica porta della modesta capanna che era la loro umile dimora. La spinse con delicatezza ed essa si aprì verso l’esterno cigolando sommessamente e svelando il volto della notte buia.
In alto, in un angolo di quello spicchio di cielo d’Etiopia sedeva una schiva falce di luna, lontana e noncurante. Da lassù la Signora della notte poteva contemplare il mondo intero, le montagne, le valli, i deserti, le città, i fiumi, gli oceani e gli anfratti più remoti e nascosti. Adina era della triste opinione che anche se la luna avesse avuto occhi per vedere il mondo, il suo sguardo non si sarebbe mai soffermato su quell’angolo d’Etiopia. La curiosità del satellite terrestre sarebbe di sicuro stata stuzzicata da luoghi più significativi e da uomini e donne più importanti di lei, che facevano la storia e incidevano la memoria, nel bene o nel male che fosse.
Del resto, anche suo padre e suo fratello parevano indifferenti ai suoi pensieri e ai suoi timori. Non c’erano parole di affetto o comprensione a colorare la tavolozza sbiadita della sua vita, non c’erano tinte che non fossero il bianco e il nero nelle loro conversazioni: il silenzio e lo stretto indispensabile.
L’impossibilità di esprimere le sue ansie e i suoi timori la faceva sentire profondamente sola ed abbandonata, presa in ostaggio da una vita che non aveva scelto e che l’aveva strappata con violenza dai suoi sogni e dalle sue aspirazioni.
Si sentiva come una tazza vuota buttata nella sabbia del deserto e sospinta senza meta dal vento tra le dune. Questa era la sua vita. Eppure, qualcosa doveva esserci dentro di lei. Ogni giorno trovava la forza di andare fino a quel lontano cratere e raccogliere l’acqua, trasportandola per miglia nella sua grande tanica legata alla schiena. Quella non era mera forza fisica, ma piuttosto una tenacia che poteva sgorgare solo da dentro, dal più profondo della sua anima. Ma dov’era dunque quel la sua anima? Non riusciva proprio a sentirla. Forse esisteva, ma era come un cristallo intrappolato nella roccia che non poteva splendere ai raggi del sole.
Questi erano i pensieri che affollavano la sua mente. La gran parte del giorno la dedicava all’oro blu. Che vita era quella? Che senso aveva? Vivere faticando, semplicemente per rimanere al mondo, senza aspirazioni, senza vocazioni, senza progetti.
I primi raggi del sole accarezzavano i tetti delle capanne e svelavano le sagome spigolose dei pochi edifici in cemento. Era giunta l’ora.
Nel centro del villaggio si erano già radunate alcune donne e bambine con i loro recipienti: bidoni, secchi, brocche, contenitori di ogni sorta. Adina sbucò da dietro un edificio e svoltando l’angolo si diresse verso di loro con passo deciso. A mano a mano, donne provenienti da ogni direzione si aggiungevano al gruppo come pezzi di un puzzle che lentamente si ricomponeva.
Quando il gruppo fu al completo, donne e bambine si incamminarono in una fila composta e il corteo si mise in marcia, scivolando lentamente lungo il sentiero di ghiaia come un lungo ed elegante serpente multicolore.
Erano solo i primi passi di un cammino molto lungo. Adina assaporava l’aria ancora mite del mattino. Sulle sue spalle, il contenitore vuoto oscillava leggermente. Anche quella mattina avrebbero dovuto percorrere quasi venti chilometri; la siccità imprigionava da mesi nella sua morsa quella parte dimenticata di Africa ed i pozzi più vicini al villaggio erano completamente prosciugati.
La strada si allungava all’infinito verso l’orizzonte. Adina aveva la sensazione di camminare su una lunga striscia bianca separata dal resto del mondo, una sorta di corda sospesa tra Cielo e Terra, fuori dal tempo e dallo spazio, lontana dall’abbagliante frenesia del fiume della vita, dall’impetuosa corrente dell’anima e delle sue emozioni.
Finalmente giunsero sul margine di una grande conca. Da lì si scorgevano tre pozze d’acqua verde-blu di modeste dimensioni. Il gruppo cominciò a scendere con estrema cautela lungo il pendio scosceso fino a raggiungere quei tre occhi bluastri incastonati nel sale bianco e lucente come rare pietre preziose.
Poco tempo per riempire i contenitori, poi il cammino riprese sulla lunga via del ritorno. Ora iniziava la parte più faticosa del viaggio.
E così Adina, con i suoi tredici anni e la corporatura esile si rimise in marcia con il resto del gruppo verso casa, portando sulle spalle il prezioso liquido che gravava sul suo corpo con un peso di circa venti chili.
«Respira, è semplice, devi solo respirare e tutto andrà bene, l’aria ti dà forza» mormorò Adina tra sé. Il sentiero si allungava infinito e sempre uguale verso l’orizzonte. «Un respiro ad ogni passo, ecco che ci sei, il ritmo è giusto, come sempre» continuò ancora tra sé.
Ad un tratto, una ragazza scivolò sulla ghiaia e cadde sotto il peso della grossa tanica che portava legata sulla schiena. Un paio di donne del corteo le si avvicinarono e cercarono di aiutarla ad alzarsi, ma il peso dell’acqua sui loro corpi scarni rendeva l’impresa ardua. Adina riuscì a raggiungere la malcapitata e la afferrò per le spalle. Tirò verso di sé con un gesto deciso, serrando i denti, e la ragazza fu di nuovo in piedi. Si voltò verso Adina, la fissò con i suoi grandi occhi umili e sinceri e disse: «Grazie, grazie davvero… Qual è il tuo nome?».
«Adina».
In quel momento il tempo parve fermarsi nel cuore di Adina e dilatarsi all’infinito. Era così fiera del suo gesto. Eppure era un gesto così semplice, così spontaneo. In fondo era così naturale aiutare un altro essere umano in difficoltà. Il sorriso che dalle labbra si era esteso come una macchia d’olio sul volto di quella ragazza le diceva che quell’azione che le sembrava così semplice e naturale, in realtà non era scontata.
Tutto ciò che era attorno le apparve ora diverso. Lei stessa si sentiva cambiata.
Il giorno dopo, Adina era lì nel centro del villaggio, pronta a partire ai primi raggi del sole, come sempre. I suoi occhi vagavano distratti verso l’orizzonte. Ripensava al giorno prima, a quel momento semplice, ma speciale che aveva vissuto. Forse era stata solo un’illusione, una temporanea boccata di ossigeno. Forse tutto sarebbe stato di nuovo come prima.
Ad un tratto, una voce quasi sussurrata la distolse dalle sue riflessioni. «Ciao Adina ». Davanti ai suoi occhi apparve il volto di quella ragazza che lei aveva aiutato a rialzarsi in piedi, quel volto che le aveva regalato un sorriso.
«Ciao…» rispose Adina tornando alla realtà. «Qual è il tuo nome? Scusami, avrei dovuto chiedertelo già ieri».
«Mi chiamo Jamila.» rispose l’altra con un sorriso ad illuminarle il viso
Anche Adina sorrise. No, non aveva perso la sua anima. Ora ne era certa. Poteva scorgere il suo riflesso nell’immensità del cielo accarezzato dall’aurora.
Finalmente aveva ritrovato sé stessa, quella sé stessa che aveva smarrito quando era stata costretta ad abbandonare la scuola.
Il gruppo si mise in marcia. Adina e Jamila camminavano l’una dietro l’altra. Non parlavano perché il fiato era prezioso, tuttavia quel silenzio valeva più di mille parole.
Adina fissò il suo sguardo sull’orizzonte lontano, lì dove Terra e Cielo si incontravano, il finito si fondeva con l’infinito, la realtà sfumava nell’immaginazione. Guardare l’orizzonte le dava forza e la faceva sentire parte di un disegno più grande, più elevato, dove la sua finitudine di essere umano poteva espandersi in un dialogo silenzioso con le creature e gli elementi del cosmo.
L’universo e i suoi elementi ora non la trascuravano più: il sole lasciava cadere i suoi caldi raggi dorati sulla polvere attorno a lei e le baciava i capelli, la ghiaia sussurrava a tratti misteriosi bisbigli sotto i suoi piedi. E ancora, piccole nubi bianche e leggere come bambagia ricamavano il cielo limpido e quasi trasparente che si estendeva sopra di lei come una gigantesca cupola vitrea ad incapsulare il mondo intero.
Adina aveva ritrovato la sua anima nel sorriso grato di quella ragazza e grazie a quegli occhi riconoscenti, il suo universo interiore era tornato a vivere.

Sara Bortoluz

Foto da Internet

“Compagni di scuola” al terzo posto nel nostro concorso letterario

Libri
Con “Compagni di scuola” di Carlo Molteni si è posizionato al terzo posto tra i racconti che hanno partecipato al concorso letterario “Tra terra e acqua” indetto da La Nuova Briantea. A lui i nostri complimenti.

Compagni di scuola
Sai, è morto il.. domani fanno il funerale. Ci stai a fargli una corona, come coscritti, ti va bene? Ci vediamo in chiesa alle due e mezza, ciao”.
La telefonata giunse così inaspettata che mi lasciò solo il tempo di rispondere a monosillabi. Si va bene, ci sto, ci mancherebbe; ma come è successo? Era ammalato? Ah, brutta storia in così poco tempo se l’è portato via. Chissà i suoi!
Ne è passato di tempo da quando il cortile che si affaccia sulla strada statale ci vedeva giocare durante l’intervallo. Oggi i bambini delle scuole giocano ancora lì, sulla ghiaia che abbiamo calpestato noi, seduti sui muretti dove ci sedavamo noi, guardati a vista da quell’edificio con la pianta a elle che ci ha ospitato durante le elementari.
Non ci sono più i banchi doppi in legno con inserito il bicchiere di vetro per l’inchiostro e il bidello coi baffi dal fare serio che regolarmente passava a riempirli. Non ci sarà più la distribuzione di quaderni, matite, gomme, pennini e cannucce per i più poveri fatta dal Patronato Scolastico. La maestra dai capelli rossi in prima elementare ed il maestro “terrone” che ci portò tanto amorevolmente dalla seconda alla quinta. Non ci sono più i giovedì a casa ma solo al pomeriggio così ci perdevamo il mercato e non ci sarà più il primo giorno di scuola con la blusa nera bella in ordine e la Messa in chiesa. La novità della prima vaccinazione Sabin, tutti in fila a digiuno per inghiottire una zolletta di zucchero intrisa di un liquido rosso che dicevano fosse fegato di scimmia, per poi andare in classe e godersi il panino con la marmellata portato da casa. Le ampie scale in sasso testimoni del nostro salire stancamente la mattina e scendere precipitosamente al suono della campanella alla fine delle lezioni, quelle ci sono ancora.
Ci sarà ancora qualcosa rimasto da allora ne sono certo. I muri pervasi delle nostre urla, del nostro rincorrerci per i corridoi durante l’intervallo, dei nostri discorsi con i compagni di classe, delle nostre preoccupazioni e dei nostri progetti. Tutto lì, sotto i molteplici strati di vernice a fissare per sempre la vita che vi scorse.
Vi ho rivisto ieri, in piazza. Mi sembravate più invecchiati di me. Vi ho perso di vista dopo le elementari, un percorso di studi diverso, ma vi ho sempre seguito e inseguito cari amici compagni in quella bellissima avventura della scuola elementare. Tu, ricordo che eri tra i più bravi. Scrivevi benissimo senza macchiare il foglio di inchiostro, cosa che capitava a tanti di noi. Tu, invece hai bevuto un bicchiere di inchiostro davanti al maestro perché ti aveva sgridato. E tu, che venivi a scuola con le scarpe di pezza e ti facevi più di mezz’ora a piedi col freddo e col ghiaccio sulle mulattiere; ma c’eri, sempre presente, ed eri il mio compagno di banco. Ora ti vedo un po’ provato dalle vicissitudini della vita ma positivo come sempre. E tu, furbetto coi capelli rossi che durante la cena dei coscritti ci correggi la pronuncia dei Lewis. Hai girato il mondo, sei stato in America ed ora sei qui, con noi, a ricordarci che alla fine la tenacia e la voglia di fare vincono sempre su ogni avversità della vita. Sei l’orgoglio della tua mamma. E, sì. La tua mamma e la mia lavoravano assieme ed erano grandi amiche. Me ne parlava con tanto rispetto. Allora essere una ragazza madre era qualcosa di inammissibile. Eppure, la forza e la volontà di una persona che si era ritrovata sola col suo bambino scatenava nelle altre donne un senso di profondo rispetto e di ammirazione. Ed è così che mia mamma parlava della tua. Come un esempio da seguire che va al di là del perbenismo e della falsa moralità degli anni cinquanta ma che insegna l’amore per quello che è. Dedizione totale e sacrificio.
Ehilà, ma sei proprio tu? E’ dai tempi del catechismo che non ti vedo. Sei sempre lo stesso. Sguardo buono e il dialogare lento e misurato, le mani grandi che stringono le mie con un brivido che corre su una pista infinita di ricordi e sensazioni.
Ciao, eccoci qui. Ti ricordi quando mi dicesti che a vent’anni sarei stato pelato? Bene i miei capelli, pochi, ma ci sono tutti ed i tuoi dove sono finiti? Persi nelle corse con l’ape che si ribaltava nel fare i tornanti per Ombriaco?
Ecco il Governador! Ormai sei entrato nella parte ed il tuo look ne è la prova vivente. Bravo. Si vede che la voglia di essere protagonista, anche solo per una notte, ti appassiona. La Pesa Vegia è per noi bellanesi il richiamo della foresta che ci fa riunire tutti, per quella notte. Come da bambini quando la rincorsa ai Re Magi per raccogliere le caramelle ci sfiancava. Contenti però del nostro dolce bottino.
Ehi. Ti ricordi quella volta che volevi farci spostare la statua del Tommaso Grossi? Proposta folle e dettata dal buon vino. Ma la cosa più bella era che, alle due di una notte d’inverno ci trovavamo in quattro a dissertare se era meglio che il Grossi guardasse verso Verginate o verso Coltogno. Rivivendo così le battaglie tra frazioni e il paese, vecchie ruggini sopite da sempre ma riaffioranti ogniqualvolta si voleva inventare qualcosa per divertirsi.
Eh sì, cari compagni di scuola. Fa male dopo una rimpatriata giungere a quel momento che i ricordi ti portano a qualcuno che non c’è più. Le risate e i “ti ricordi..” si bloccano quasi per istinto. Pensando che noi siamo ancora lì a ridere di noi con quell’amarezza e quella dolcezza che ci fa scoprire che loro, sì proprio loro, sono lì ancora con noi e ce li porteremo dentro sempre. Ciao ragazzi, alla prossima.
Carlo Molteni

Foto da internet