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Otto nuovi box per la restituzione dei libri

Destinati alle biblioteche di Barzio, Bellano, Bulciago, Calolziocorte, Colico, Olgiate Molgora, Missaglia e Oggiono
Box libri biblioteche
Il Sistema Bibliotecario del Territorio Lecchese, utilizzando un finanziamento della campagna Art Bonus per il progetto “Le biblioteche per tutti”, ha acquistato e assegnato alle biblioteche di Barzio, Bellano, Bulciago, Calolziocorte, Colico, Olgiate Molgora, Missaglia e Oggiono box che consentiranno agli utenti la restituzione dei libri e dei DVD 24 ore su 24, 365 giorni all’anno.
I criteri di assegnazione dei box, condivisi con i bibliotecari in rappresentanza dei Comuni richiedenti ai quali è stato chiesto un parere tecnico, hanno tenuto conto degli indicatori di funzionamento della biblioteca (prestiti locali e utenti attivi), dell’accessibilità e della gestione del box, dell’area territoriale di riferimento e delle prospettive di sviluppo della biblioteca.

La libreria Cattaneo di Lecco consegna i libri a domicilio

L’emergenza sanitaria è destinata a prolungarsi e la libreria Cattaneo di Lecco consegna i libri a domicilio, al momento solo in Lecco città e con un minimo ordine 20 euro, circa due libri. Il pagamento in contanti.
La libreria è in grado di assicurare una consegna rapida solo i libri che sono attualmente presenti in libreria.
Per aiutare nella scelta ecco per esempio la nostra TOP 5 di gialli proposta dalla libreria Cattaneo di Lecco.

IL LATO NORD DEL CUORE di Dolores Redondo. Agosto 2005 l’investigatrice basca Amaia Salazar raggiunge il quartier generale dell’FBI e a sorpresa si ritrova
Cooptata nella squadra investigativa diretta a New Orleans, alla vigilia del peggior uragano della storia recente, con l’obiettivo di battere l’assassino e sventare i suoi piani di morte.
LA PAZIENTE SILENZIOSA di Alex Michaelides. Un thriller psicologico Alicia Berenson dopo aver ucciso il marito si chiude in un mutismo impenetrabile. Theo Faber è uno psicologo criminale ed è sicuro di poter risolvere il caso.
UNA DONNA NORMALE di Roberto Costantini. Aba Abate è una donna normale, ma in realtà è anche “ICE” un’agente segreto con un compito delicatissimo reclutare e gestire gli infiltrati nelle moschee…
I QUATTRO CANTONI di Gabriella Genisi. Un nuovo caso per la commissaria barese Lolita Lobosco. In una Puglia fascinosa e crepuscolare va in scena una nuova avventura della spavalda poliziotta barese.
LA MISURA DEL TEMPO di Giarico Carofiglio. Un nuovo straordinario caso per l’avvocato Guido Guerrieri. anche in questo caso Carofiglio non si smentisce e ci regala un libro che ci cattura dall’inizio alla fine.

“Un fiume di ricordi” di Roberta Baldantoni raccoglie consensi al nostro concorso di narrativa

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Ecco il racconto di Roberta Baldantoni dal titolo “Un fiume di ricordi” Quando ho sentito bussare alla porta, sono rimasta stupita. Erano mesi o forse anni che nessuno lo faceva, tanto meno mi sarei immaginata di trovare, una volta aperto, due occhietti neri, curiosi e pungenti.
Quando mi hai salutato con quel “Buongiorno” squillante, ho pure pensato che fossi la solita scocciatrice in cerca dell’ennesima anzianotta da raggirare, ma ancora ci sto bene con la testa e ho sempre il bastone con me, non si sa mai.
In realtà mi hai chiesto solo informazioni su un vecchio mulino della zona, un mulino di quelli ad acqua, come si vedono nelle illustrazioni delle migliori storie per bambini. In un attimo la mia testa è tornata a quella ruota, al suo rumore, allo scorrere del fiume, all’attrito delle macine di pietra ed alla faccia di mio marito mugnaio, sporca di bianco.
Quindi, facendo il punto, tu sei una giovane universitaria intenta a fare una ricerca sui “mestieri perduti” e io sono una sorta di piccola enciclopedia fatta di ricordi; forse, nonostante la mia età, potremmo pure arrivare a delle conclusioni interessanti, visto che ancora non sono proprio decrepita
e la mia testa, come dicevo prima, regge ancora.
Mi sarebbe piaciuto che tu parlassi con mio marito, lui era quello che poteva svelarti i segreti di un mestiere ormai scomparso, ma purtroppo non c’è più. In realtà forse non c’era più da tempo, da tanto, troppo tempo; potrei sostenere di essere rimasta vedova giovanissima e non direi poi nulla di così osceno.
Lo so che non mi capisci, lo vedo dai tuoi occhietti che diventano sempre più piccoli e pungenti, ma il punto è che ogni luogo ha una storia che si intreccia con quella di chi lo abita. La nostra storia è stata meravigliosa e tremenda allo stesso tempo. Non so se hai la pazienza di ascoltarmi, non vorrei fare la parte della vecchia brontolona nostalgica, sai di quelle che ripetono sempre le stesse cose, ma in realtà forse questa è la prima volta che mi sento di raccontare come è andata veramente.
Il mulino che tu cerchi, era proprio qui, in questa casa. Le macine ed il meccanismo erano al piano di sotto, e qua fuori c’era il canale con cui veniva deviata l’acqua del fiume, per far funzionare la ruota. Era immensa, tutta di legno e ha fatto il suo dovere per molti anni, sempre accudita da mio
marito.
Era il primo dopoguerra, ed io ero diventata la moglie del mugnaio ribelle, mio marito infatti era considerato un po’ strambo, perché nonostante le origini nobili, aveva deciso di lasciare tutto ed essere diseredato dalla famiglia, piuttosto che doversi assoggettare a quelle che per lui, erano delle regole assurde. Il padre lo considerava un reietto, la madre non ne parliamo, solo la sorella di tanto in tanto, di nascosto, lo veniva a trovare. Poco male, nessuno di loro era poi così simpatico, te lo posso garantire. Anche io comunque, avevo avuto qualche difficoltà a potermi sposare con lui.
I miei genitori erano contrari e i mie tre fratelli fecero il diavolo a quattro per potermi evitare un dolore, dicevano loro. Forse, col senno di poi, mi sento di dire che avevano ragione, ma è anche vero che forse non si può andare contro al proprio destino, mi ero incapricciata col mugnaio e sua moglie diventai.
Tornando al nostro mulino, posso dirti che qui la zona era molto diversa da come la vedi ora. Non c’era la strada asfaltata no, si poteva arrivare attraversando un ponticello in cui passava a pelo un carro tirato da due buoi. Poi ovviamente c’era chi arrivava coi sacchi caricati sull’asino o addirittura
tirando in due o tre un carrettino. Le famiglie all’epoca non avevano molte risorse, le uniche cose che c’erano in abbondanza erano la miseria e le bocche da sfamare.
Avevamo costruito un piccolo pergolato, per far ristorare la gente che arrivava e che sarebbe ripartita solo una volta finita la macinatura. Mio marito era abile e veloce anche se a volte i suoi modi lasciavano a desiderare.
Passava dalla scontrosità del mattino, all’affabilità e voglia di scherzare del pomeriggio e la gente che arrivava a volte se la prendeva un po’. Fortunatamente il mulino più vicino al nostro era parecchio lontano e nolenti o piacenti, i clienti non ci mancavano.
Ti chiederai se eravamo soli, considerando come erano numerose le famiglie all’epoca. Siamo stati soli e poi è arrivato un figlio, un maschio che ha fatto diventare mio marito luminoso e amorevole, penso che avrebbe dato la sua vita pur di farlo star bene. Erano sempre attaccati, se lo portava dappertutto e dal ponticello sopra il fiume, andavano a fare i tuffi nella gorga sottostante. Io avevo una paura, che se ci penso ancora oggi mi vengono i brividi, ma quei due erano come i cervi che ancora oggi pascolano qui dietro, erano liberi. Abbiamo sempre vissuto in questa sorta di paradiso, coi piedi piantati su una terra meravigliosa, piena di natura e così vicina alla felicità, attraversata da questo fiume, che non è poi così diverso oggi da allora. Sai ho sentito alla televisione che l’acqua è considerata divina, dà la vita dicevano, io non so se sia vero, ma sicuramente so che scorre e che non è mai uguale a se stessa. Scorre e non si può fermare, proprio come il tempo che è passato ed oggi mi vede qui con te, a raccontare qualcosa che non c’è più.
Dicevamo del mulino, scusami ma ogni tanto mi viene da prendere una via traversa nel discorso.
Ecco le macine erano di pietra ed erano scalpellate a mano. Ad ogni fine stagione mio marito le ripassava in modo che l’anno dopo potessero lavorare al meglio. Poi c’era il buratto che serviva a raffinare la farina e tanti altri arnesi che io non ti saprei nemmeno nominare. All’inizio io stavo al mulino, ma dopo la nascita del figliolo mi sono dedicata a lui. Quanto gli volevamo bene!
Parlo al passato sì, perché io adesso sono sola. Mio figlio aveva qualcosa di strano, ha iniziato verso i dieci anni ad avere dei problemi. La prima volta che capitò eravamo io e lui e non sapevo cosa fare. Iniziò a tremare, strabuzzando gli occhi cadde per terra e sembrava soffocare. Ho urlato, ho pianto, ero disperata. Mio marito arrivò di corsa, tutto bianco di farina e cercò di tenerlo fermo per non farlo sbattere o ferire, poi tutto passò.
Mettendo da parte l’orgoglio, il mio povero marito rispolverò tutte le sue vecchie conoscenze ed amicizie, per poter venire a capo di qualcosa, per capire l’origine del male del ragazzo. Un giorno un medico ci spiegò e io che non avevo capito niente, riuscii solo a comprendere che si trattava di qualcosa di male. Mio marito si prese la testa fra le mani alle parole del medico, poi usciti dalla
stanza, ci prese tutti e due per mano e ci riportò a casa. Nei giorni seguenti non faceva altro che raccomandarsi col ragazzino di non allontanarsi e di rimanere sempre nei paraggi dove lo potevamo vedere. Quel poveretto crebbe i successivi quattro anni immerso nei nostri angosciosi pensieri, senza sapere cosa gli stava succedendo. Era epilettico, soffriva di una forma grave, che nessun farmaco era stato in grado di tenere a freno.
Il ragazzo andava a scuola regolarmente, accompagnato a piedi da altri compagni, poi quando tornava, andava ad aiutare il padre al mulino. Era felice quando erano insieme, gli occhi brillavano ad entrambi. D’estate il padre non lo portava più a fare i tuffi dal ponticello, si era inventato che il livello dell’acqua era diminuito e si sarebbero potuti fare male, ma in realtà aveva solo paura. Anzi ti dirò che gli aveva proprio vietato di fare anche solo il bagno con gli amici e lui iniziò a pensare che tutti quei no e quelle imposizioni, fossero ingiusti castighi per qualcosa di male che non aveva fatto. Soffriva e diventava sempre più insofferente.
Un pomeriggio d’estate disse al padre che sarebbe andato da un vicino, in casa di un suo compagno di scuola, per aiutarlo a caricare i sacchi di grano da portare al mulino. Quando capimmo che era
una scusa, era ormai troppo tardi. Era annegato e mio marito lo ritrovò qualche centinaio di metri più a valle, trattenuto da un ramo di acacia. Aveva solo quattordici anni.
In un colpo solo io ho perso la vita, un figlio e mio marito, che reagì nel modo più assurdo che poté.
Iniziò ad essere veramente pazzo, mandava via i clienti imbracciando il fucile, stava giornate intere oziando steso per terra senza mangiare né bere, si buttava nel fiume anche nei mesi successivi, in pieno inverno e urlava e piangeva, io lo sentivo che anche di notte piangeva, senza darsi pace. Un giorno iniziò a prendere a martellate la ruota del mulino, ne spaccò una parte e da quel momento finì di sgretolarsi anche quel poco che era rimasto. Io non potevo fare altro che guardare ed aspettare, non potevo aiutarlo in alcun modo, perché prima dovevo capire come aiutare me stessa.
Scusami tesoro, forse ho esagerato, mi sono fatta prendere la mano dalla mia storia e ho perso di vista il mulino. Forse però avrai altri dieci minuti per ascoltare come è finita, perché non è ancora finita.
Il mulino era perso, il lavoro era finito, eravamo nell’indigenza più totale e un giorno mio marito, avvicinandosi mi abbracciò, e mi strinse forte per le spalle. Baciandomi sulla guancia mi chiese scusa per non esserci più stato, mi voleva ancora bene! Forse potevo sperare di ricominciare, potevamo dimenticare.
Un mese dopo scoprii di essere in cinta. Sarebbe stata una gioia ma poteva essere di nuovo l’inizio di un incubo. Non dissi niente a nessuno ed iniziai a fare i peggior lavori, sforzandomi di faticare più che potevo. Avrai capito cosa ti voglio dire, dove volevo arrivare e capirai anche, che ci sono riuscita.
Qualche settimana dopo, un pomeriggio di gennaio, a piedi nudi tra la neve, stavo lavando i panni al fiume, un dolore lancinante, tanto sangue che tinse l’acqua e poi non ricordo più niente. Mi sono risvegliata in casa, febbricitante, in sottofondo, dall’altra stanza, il brusio delle voci del medico e mio marito. Pensando di fare bene, avevo solo segnato irrimediabilmente le nostre vite. Quindi come vedi, il mulino di per sé, sarebbe stato qualcosa di inanimato e non avrebbe una gran storia se non fosse stato per le azioni di questa povera vecchia e di tutti gli altri, naturalmente.
Tutti siamo stati felici ed abbiamo sofferto in questa terra, vicino a questo fiume che ci ha insegnato che nulla è per sempre, che tutto se ne va e si trasforma, sia i momenti belli che quelli brutti.
La storia del vecchio mulino è tutta qui.

Roberta Baldantoni

Foto da Internet

“Oro blu” il racconto di Sara Bortoluz si mette in luce nel nostro concorso di narrativa

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Ecco il racconto di Sara Bortoluz dal titolo “Oro blu”

Adina si svegliò nel cuore della notte. Il buio regnava sovrano attorno a lei, avvolgendola nella sua massa densa ed oscura. Un dolore incessante e fastidioso le percorreva la schiena, snodandosi a tratti lungo le braccia scarne. Era esausta, eppure non riusciva a dormire: i suoi occhi rimanevano ostinatamente aperti e fissi nell’oscura vacuità, a scrutare l’indistinto ventre della notte. Non era il caldo a turbare il suo sonno. Sì, l’aria era immobile e forte nel suo abbraccio, ma vi era abituata, era nata in Etiopia, quella era la sua terra, dolce ed amara allo stesso tempo.
Non era neppure il male che le attanagliava le membra a tormentarla: anche se non le dava tregua, era soltanto uno sfondo lontano, che esisteva, ma non era altro che un paesaggio remoto che svaniva tra pennellate di bianche nubi all’orizzonte. In primo piano, svettava invece un vago senso di muta inquietudine. Era la prigionia della sua anima a dolerle, le ali ferite e spezzate della sua immaginazione a sanguinarle.
«Ogni giorno, non vi era possibilità di alcuna eccezione – pensava – e per quanto tempo ancora? Molto probabilmente per sempre».
Tra poche ore sarebbe spuntato il sole e lei avrebbe dovuto affrontare l’arida pianura. L’astro diurno sarebbe sorto sul volto spento di una giornata che si aggiungeva ripetitiva ad una serie di giornate scandite dal ritmo amaro dei passi infiniti sulla polvere.
Sentiva il respiro tranquillo del padre e del fratello che dormivano profondamente. Si alzò e senza far rumore raggiunse l’unica porta della modesta capanna che era la loro umile dimora. La spinse con delicatezza ed essa si aprì verso l’esterno cigolando sommessamente e svelando il volto della notte buia.
In alto, in un angolo di quello spicchio di cielo d’Etiopia sedeva una schiva falce di luna, lontana e noncurante. Da lassù la Signora della notte poteva contemplare il mondo intero, le montagne, le valli, i deserti, le città, i fiumi, gli oceani e gli anfratti più remoti e nascosti. Adina era della triste opinione che anche se la luna avesse avuto occhi per vedere il mondo, il suo sguardo non si sarebbe mai soffermato su quell’angolo d’Etiopia. La curiosità del satellite terrestre sarebbe di sicuro stata stuzzicata da luoghi più significativi e da uomini e donne più importanti di lei, che facevano la storia e incidevano la memoria, nel bene o nel male che fosse.
Del resto, anche suo padre e suo fratello parevano indifferenti ai suoi pensieri e ai suoi timori. Non c’erano parole di affetto o comprensione a colorare la tavolozza sbiadita della sua vita, non c’erano tinte che non fossero il bianco e il nero nelle loro conversazioni: il silenzio e lo stretto indispensabile.
L’impossibilità di esprimere le sue ansie e i suoi timori la faceva sentire profondamente sola ed abbandonata, presa in ostaggio da una vita che non aveva scelto e che l’aveva strappata con violenza dai suoi sogni e dalle sue aspirazioni.
Si sentiva come una tazza vuota buttata nella sabbia del deserto e sospinta senza meta dal vento tra le dune. Questa era la sua vita. Eppure, qualcosa doveva esserci dentro di lei. Ogni giorno trovava la forza di andare fino a quel lontano cratere e raccogliere l’acqua, trasportandola per miglia nella sua grande tanica legata alla schiena. Quella non era mera forza fisica, ma piuttosto una tenacia che poteva sgorgare solo da dentro, dal più profondo della sua anima. Ma dov’era dunque quel la sua anima? Non riusciva proprio a sentirla. Forse esisteva, ma era come un cristallo intrappolato nella roccia che non poteva splendere ai raggi del sole.
Questi erano i pensieri che affollavano la sua mente. La gran parte del giorno la dedicava all’oro blu. Che vita era quella? Che senso aveva? Vivere faticando, semplicemente per rimanere al mondo, senza aspirazioni, senza vocazioni, senza progetti.
I primi raggi del sole accarezzavano i tetti delle capanne e svelavano le sagome spigolose dei pochi edifici in cemento. Era giunta l’ora.
Nel centro del villaggio si erano già radunate alcune donne e bambine con i loro recipienti: bidoni, secchi, brocche, contenitori di ogni sorta. Adina sbucò da dietro un edificio e svoltando l’angolo si diresse verso di loro con passo deciso. A mano a mano, donne provenienti da ogni direzione si aggiungevano al gruppo come pezzi di un puzzle che lentamente si ricomponeva.
Quando il gruppo fu al completo, donne e bambine si incamminarono in una fila composta e il corteo si mise in marcia, scivolando lentamente lungo il sentiero di ghiaia come un lungo ed elegante serpente multicolore.
Erano solo i primi passi di un cammino molto lungo. Adina assaporava l’aria ancora mite del mattino. Sulle sue spalle, il contenitore vuoto oscillava leggermente. Anche quella mattina avrebbero dovuto percorrere quasi venti chilometri; la siccità imprigionava da mesi nella sua morsa quella parte dimenticata di Africa ed i pozzi più vicini al villaggio erano completamente prosciugati.
La strada si allungava all’infinito verso l’orizzonte. Adina aveva la sensazione di camminare su una lunga striscia bianca separata dal resto del mondo, una sorta di corda sospesa tra Cielo e Terra, fuori dal tempo e dallo spazio, lontana dall’abbagliante frenesia del fiume della vita, dall’impetuosa corrente dell’anima e delle sue emozioni.
Finalmente giunsero sul margine di una grande conca. Da lì si scorgevano tre pozze d’acqua verde-blu di modeste dimensioni. Il gruppo cominciò a scendere con estrema cautela lungo il pendio scosceso fino a raggiungere quei tre occhi bluastri incastonati nel sale bianco e lucente come rare pietre preziose.
Poco tempo per riempire i contenitori, poi il cammino riprese sulla lunga via del ritorno. Ora iniziava la parte più faticosa del viaggio.
E così Adina, con i suoi tredici anni e la corporatura esile si rimise in marcia con il resto del gruppo verso casa, portando sulle spalle il prezioso liquido che gravava sul suo corpo con un peso di circa venti chili.
«Respira, è semplice, devi solo respirare e tutto andrà bene, l’aria ti dà forza» mormorò Adina tra sé. Il sentiero si allungava infinito e sempre uguale verso l’orizzonte. «Un respiro ad ogni passo, ecco che ci sei, il ritmo è giusto, come sempre» continuò ancora tra sé.
Ad un tratto, una ragazza scivolò sulla ghiaia e cadde sotto il peso della grossa tanica che portava legata sulla schiena. Un paio di donne del corteo le si avvicinarono e cercarono di aiutarla ad alzarsi, ma il peso dell’acqua sui loro corpi scarni rendeva l’impresa ardua. Adina riuscì a raggiungere la malcapitata e la afferrò per le spalle. Tirò verso di sé con un gesto deciso, serrando i denti, e la ragazza fu di nuovo in piedi. Si voltò verso Adina, la fissò con i suoi grandi occhi umili e sinceri e disse: «Grazie, grazie davvero… Qual è il tuo nome?».
«Adina».
In quel momento il tempo parve fermarsi nel cuore di Adina e dilatarsi all’infinito. Era così fiera del suo gesto. Eppure era un gesto così semplice, così spontaneo. In fondo era così naturale aiutare un altro essere umano in difficoltà. Il sorriso che dalle labbra si era esteso come una macchia d’olio sul volto di quella ragazza le diceva che quell’azione che le sembrava così semplice e naturale, in realtà non era scontata.
Tutto ciò che era attorno le apparve ora diverso. Lei stessa si sentiva cambiata.
Il giorno dopo, Adina era lì nel centro del villaggio, pronta a partire ai primi raggi del sole, come sempre. I suoi occhi vagavano distratti verso l’orizzonte. Ripensava al giorno prima, a quel momento semplice, ma speciale che aveva vissuto. Forse era stata solo un’illusione, una temporanea boccata di ossigeno. Forse tutto sarebbe stato di nuovo come prima.
Ad un tratto, una voce quasi sussurrata la distolse dalle sue riflessioni. «Ciao Adina ». Davanti ai suoi occhi apparve il volto di quella ragazza che lei aveva aiutato a rialzarsi in piedi, quel volto che le aveva regalato un sorriso.
«Ciao…» rispose Adina tornando alla realtà. «Qual è il tuo nome? Scusami, avrei dovuto chiedertelo già ieri».
«Mi chiamo Jamila.» rispose l’altra con un sorriso ad illuminarle il viso
Anche Adina sorrise. No, non aveva perso la sua anima. Ora ne era certa. Poteva scorgere il suo riflesso nell’immensità del cielo accarezzato dall’aurora.
Finalmente aveva ritrovato sé stessa, quella sé stessa che aveva smarrito quando era stata costretta ad abbandonare la scuola.
Il gruppo si mise in marcia. Adina e Jamila camminavano l’una dietro l’altra. Non parlavano perché il fiato era prezioso, tuttavia quel silenzio valeva più di mille parole.
Adina fissò il suo sguardo sull’orizzonte lontano, lì dove Terra e Cielo si incontravano, il finito si fondeva con l’infinito, la realtà sfumava nell’immaginazione. Guardare l’orizzonte le dava forza e la faceva sentire parte di un disegno più grande, più elevato, dove la sua finitudine di essere umano poteva espandersi in un dialogo silenzioso con le creature e gli elementi del cosmo.
L’universo e i suoi elementi ora non la trascuravano più: il sole lasciava cadere i suoi caldi raggi dorati sulla polvere attorno a lei e le baciava i capelli, la ghiaia sussurrava a tratti misteriosi bisbigli sotto i suoi piedi. E ancora, piccole nubi bianche e leggere come bambagia ricamavano il cielo limpido e quasi trasparente che si estendeva sopra di lei come una gigantesca cupola vitrea ad incapsulare il mondo intero.
Adina aveva ritrovato la sua anima nel sorriso grato di quella ragazza e grazie a quegli occhi riconoscenti, il suo universo interiore era tornato a vivere.

Sara Bortoluz

Foto da Internet